Arti marziali come stile di vita

Paolo Meale -

C’è stata una sera in cui, rimasto solo nel dojo, ripensai a quando Sensei ci fece conoscere il Maestro. Allora non lo sapevo, ma nella mia storia di artista marziale sarebbe accaduto qualcosa di definitivo.

Avevo cominciato col Karate senza chiedermi troppo quali fossero le caratteristiche di un buon insegnante; partendo dal presupposto che se costui allacciava una cintura nera doveva per forza di cose essere più che adeguato. Intanto scoprivo un mondo nuovo, mi piaceva e lo interpretavo attraverso gli occhi di un ragazzino: formavo le mie basi. Durante le prime lezioni spesso mi veniva da ridere nel vedere certe mosse, non ero abituato, però ci misi poco a entrare in quella mentalità, in quel modo di fare le cose.

L’approccio era pratico e schematico, kihon, kata, kumite ed esami di cintura due volte l’anno. Del resto nessuno mi stava spiegando che forse c’era qualcosa d'altro in quello che imparavo.

Sensei lo conobbi che ero già cintura blu e capii che poteva esistere un altro modo di fare karate, più tecnico, più duro, più adrenalinico.

Sensei era un ragazzo sotto i trent’anni, karateka e combattente impareggiabile. Diversi anni dopo il Maestro sarebbe entrato orgogliosamente nel dojo con la copia di un quotidiano per leggerci un’intervista. Il suo allievo aveva appena vinto il titolo europeo, parlava delle sue radici e faceva il suo nome spendendo parole di ammirazione e gratitudine. Fu quella la volta in cui il Maestro mi disse che Sensei era stato il suo migliore allievo. Rimasi colpito da questa sua insolita esternazione.

Dai miei primissimi inizi non posso fare a meno di ricordare discorsi che sentivo da chi era più esperto di me e che oggi fanno il paio con le chiacchiere da social in cui spesso mi imbatto.

In particolare c’era una frase: -“Il karate non è uno sport!, il karate è un’arte marziale, il karate è uno stile di vita!”-

Nonostante per molti esistano più motivi di scontro che di confronto, ciò che mette d’accordo tutti è che le arti marziali non sono sport; esse implicano abnegazione e disciplina, un sacrificio senza pari!

Da parte mia ho imparato che un vero praticante di arti marziali conosce il valore dello sport e capisce che le due cose, oggi, non possono essere distinte soltanto per l’incapacità di farle convivere nella stessa pratica.

Che io ricordi ne Sensei ne il Maestro hanno mai voluto puntualizzare questa differenza che per molti invece sembra essere fondamentale. Ascoltavo distrattamente queste cose mentre la mia cultura di film di arti marziali mi suggeriva che il concetto fosse piuttosto chiaro e l’argomento archiviato. A un ragazzino di 12 anni bastava e avanzava.

Onestamente se ancora oggi molti maestri predicano male e razzolano peggio, non è colpa loro.

Per essere credibili e dare un senso reale a certe affermazioni è necessario vivere e saper cogliere determinati momenti. Io ne ho fatto l’esperienza.

Per spiegare come questo accadde vi parlerò di qualche frammento della mia storia e di quello che naturalmente ne conseguì.

Cominciamo col dire che sono stato fortunato.

Sensei mi ha insegnato a combattere e a colpire per davvero, ma fu dopo l’incontro con il Maestro che il mio karate cambiò completamente.

Devo essere sincero, molte cose forse le avrei imparate anche altrove, in fondo si tratta di calci, pugni, lotta, proiezioni. Oggi c’è chi studia su youtube, pensate che non avrei potuto incontrare qualcuno, magari più di qualcuno, che mi insegnasse per bene queste cose?

Il Maestro mi avrebbe trasmesso qualcosa di diverso.

Non farò il tentativo di riassumere quegli anni di allenamento, non ne sarei in grado. Vi porterò direttamente a quel pomeriggio d’estate, mentre uscivo dall’ospedale. Prima di salutarci avevo afferrato la mano del Maestro per aiutarlo a tirarsi su dal letto.

In quel momento era arrabbiato, per lui rimanere immobile senza fare niente era inconcepibile e in più la sentenza ricevuta non era incoraggiante. Tirò il fiato e disse: – “Da qui mi sa che non esco più, lo so, ma se ci riesco giuro che torno a essere forte come prima, anche di più” – Il furore nei suoi occhi e quella piccola ma granitica convinzione, l’obiettivo che si era dato, riuscirono a convincermi dell’impossibile. Forse quello che avrebbe abbattuto molte persone per il Maestro non era abbastanza. Lui era diverso in tutto, anche in questo, lui ci avrebbe stupiti.

Era su quelle parole che rimuginavo mentre uscivo dall’ospedale quel pomeriggio di agosto di quasi vent’anni fa.

Due settimane dopo, in una cerimonia con pochi presenti, Sensei ci fece mettere in riga e ci inchinammo per il saluto al Maestro, l’ultimo. Mancavano poche settimane al mio esame di cintura nera. Furono le ultime lezioni con lui quelle in cui studiammo il programma tecnico. Erano almeno due anni che voleva sostenessi quella prova, dovevo farlo, ma per qualche ragione avevo sempre rimandato. Adesso ci sarei dovuto andare da solo: - “Bravo, ti sta bene” -. La commissione di esame mi chiese chi fosse il mio maestro e dopo aver pronunciato il suo nome ci fu un attimo di silenzio, non sapevano cosa dire. Non si era saputo più nulla di lui. Aveva abbandonato quel mondo diventato così diverso dalla sua natura. Adesso tutti scoprivano che la persona che aveva fondato la Federazione nella quale si erano fatti un nome, non c’era più per davvero. Quando mi proclamarono Shodan improvvisarono un breve ma sentito discorso in suo ricordo e osservammo tutti un minuto di silenzio. Fui orgoglioso di aver messo a tacere tutta quell’ipocrisia. Il Maestro ne avrebbe riso. Adesso ero cintura nera e dovevo ricominciare ad allenarmi. C’era Sensei. Con lui non c’eravamo mai capiti abbastanza e non fu l’occasione del funerale del Maestro a smuoverci verso un reciproco riavvicinamento; forse era ancora presto.

Tornai al Dojo, qui c’era un vecchio allievo della nostra scuola; un Insegnante già avviato nel jujitsu oltre che nel karate. Lui si fece carico di proseguire la via tracciata dal Maestro, proponendo lo stesso approccio, le stesse particolarità. Io da parte mia mi convinsi che era il modo giusto di continuare un percorso iniziato anni prima. Ma lui non era il Maestro, lui non aveva quel furore innato e la gente se ne accorse.

A dicembre rimanemmo in tre e a gennaio anche l’Insegnante se ne andò scusandosi. Gli riconosco di averci provato, non deve essere stato facile. Il corso era definitivamente naufragato ma per i sei mesi successivi decisi di rimanere comunque e di continuare ad allenarmi per conto mio. Forse volevo mettermi alla prova, capire se ero in grado di reggere la botta. Poi era una questione di orgoglio, di rispetto. Volevo che rimanesse una traccia di quello che era stato, ancora per un po'.

Una sera, mentre facevo stretching nel dojo, ripensai a quanti allievi fossimo solo pochi mesi prima di quel momento e provai tristezza. Nello sconforto della sconfitta ricordai il pomeriggio in cui Sensei ci caricò in macchina e andammo ad allenarci nel dojo del Maestro. C’erano tanti ricordi sul quel parquet consumato. Una volta, il Maestro, entusiasta per i progressi ottenuti attraverso i suoi esercizi quotidiani, mi disse: – “Pensa, se sono così adesso che ho 65 anni, come sarò a 90 anni?, dopo tutto questo allenamento… da morto sarò fortissimo e pure bello!” -. Lui era così.

Tanta gente era transitata negli anni, quanti erano passati al dojo solo per conoscerlo e chiedergli dei libri che aveva scritto. Il Maestro era abbastanza indifferente alle lusinghe, col suo fare sorridente un po' canzonatorio liquidava la maggior parte di loro, per lui erano solo meteore, gente che veniva a perdere tempo. Aveva avuto ancora una volta ragione, dove erano finiti tutti?

Poi mi tornarono in mente i mesi precedenti, le ultime lezioni fatte insieme. Non poteva nascondere ne il malessere fisico ne la profonda incazzatura che provava. Nonostante tutto, però, lui era li presente quasi come se niente fosse. Il suo spirito geniale, seppur colpito nel profondo, era immutato. Il fisico non tradiva le apparenze e mostrava intatta la forza straordinaria di cui era capace. Il Maestro non era tipo da ingannare se stesso e questo era il modo che aveva scelto per combattere quel nemico vigliacco.

Esserci, senza scuse, cercando di migliorarsi, sempre. Così quelle ultime parole che mi aveva detto dal letto di ospedale assunsero un’importanza e un significato molto diverso. Avevo avuto la verità a portata di mano negli ultimi sette anni e me ne accorgevo solo adesso. Il Maestro affrontava la vita così, il suo karate andava oltre le difficoltà oggettive, superava gli ostacoli con coraggio ed ostinazione. Fino alla fine è stata viva in lui quella scintilla di follia e cieca determinazione che potevi percepire nonostante la malattia avesse già vinto.

Non so se questo sia stato il modo giusto per comprendere certe cose. Forse altri sono arrivati alla stessa consapevolezza avendo alle spalle una storia più semplice, fatta di personaggi meno mitici. Forse molti si sono accontentati di ciò che hanno vissuto attraverso le parole di altri. Io ho condiviso le mie serate e il tatami con il più grande di tutti ed ho visto con i miei occhi mettere in pratica quello ‘stile di vita’ di cui molti parlano e al quale un Karateka non dovrebbe sottrarsi.

La vera differenza non è tra sport da combattimento e arti marziali. La differenza è tra chi vive nella verità e chi si appropria di questa, fingendo. Se il Karate è qualcosa di più, se pensi che non sia ‘semplicemente’ uno sport, lo devi dimostrare e ne devi essere all’altezza, fino alla fine.